Il gatto rosa che mi rubò il cuore

di Delia Sebelin

Era un pomeriggio afoso di fine agosto. Il cielo lattiginoso, le cicale strillavano. Arrivando a casa dall’aria condizionata dell’ufficio mi erasembrato di entrare in un forno.
Aperte le finestre illudendomi di fare un po’ di corrente d’aria, ebbi la sensazione sentire una specie di pianto.
“Ah, no, è un miagolio… strano, in questo palazzo ci sono solo cani…”. Il lamento era insistente, languido, triste ma, pur affacciandomi dalla finestra non riuscivo a capire da dove arrivasse, eppure sembrava così vicino.
Fortunatamente, dopo un paio d’ore, verso l’imbrunire, smise. E io non ci pensai più, andai a farmi una doccia e a prepararmi perché dovevamo andare a cena con i vicini del piano di sotto: due persone fantastiche che 8 anni fa adottarono dal canile Marvin, 40 kg di pelo
dorato che considero mio nipote, dato che qualche volta lo tengo con me, quando i genitori umani non ci sono.
Questo incrocio di lupo era stato adottato e poi riportato indietro perché “difficile”. Ma Pietro e Alberta sono speciali e hanno raccolto la sfida.
E adesso Marvin è un cane felice… ma questa è un’altra storia…
In trattoria, tra una crescentina e l’altra (e qualche pezzettino di prosciutto allungato al nostro golosone a quattro zampe) Alberta mi disse che il miagolio proveniva dal primo piano del palazzo che abbiamo a fianco. Era dalla mattina che lo sentiva e si era accorta che c’era un micio rosso piccolo come un pugno sul davanzale di una delle finestre affacciate verso la nostra parte. “Avevo paura che volesse saltare giù, così ho provato a chiamare i vigili ma mi hanno detto che i gatti non si buttano di sotto e che, se non era in pericolo, non erano autorizzati ad intervenire”. Sorvoliamo sul bollore che mi prese a sentire un tale menefreghismo… mi “consolai” dicendomi che il miagolio era finito. E invece…
E invece la mattina dopo, domenica, a svegliarmi non fu mio marito con il profumo del caffè ma la richiesta di aiuto del micio. Così mi levai dal letto con le scatole già belle girate: “Io quel piccolo che piange non lo lascio lì, a costo di arrampicarmi su per il palazzo!”.
Senza pensarci un minuto di più, chiamai i vigili del fuoco. Non è così che si vede nei film?
Solo che la risposta non fu esattamente come quella che mi sarei aspettata dal Robert Redford che trovai all’altro capo del filo: “Signora, possiamo intervenire solo se l’animale è in pericolo di vita, per questa situazione dovrebbe contattare i vigili del suo comune”.
“Delia-stai-calma-e-pensa-al-bene-della bestiola” – disse la vocina dentro di me. Per cui, con una classe che avrebbe fatto invidia ad Audrey Hepburn, riagganciai ringraziando per la “preziosa informazione”. E dopo 3 secondi – forse 4 – stavo facendo squillare il telefono della polizia locale.
Dopo appena due squilli mi rispose una vigilessa… mi aspettavo di essere trattata come una “pazza-svitata-che-non-ha-un caz… da-fare-e-rompe-le-scatole-per-dei-gatti” ma affrontò la questione con la giusta serietà professionale, assicurandomi che lei e la collega sarebbero
passate sul posto per le 11.
(erano le 9.30, erano di pattuglia a Monte Pastore e non potevano essere lì prima).
Arrivarono puntuali come due Thelma & Louise svizzere, e scesi immediatamente per incontrarle. E’ subito stato chiaro che non le avevo interpellate per capriccio: il batuffolo color cipria aveva svegliato tutti gli inquilini del suo palazzo e pure quelli del mio. E non sembrava
intenzionato a smettere di strillare, anzi continuava a sporgersi dal davanzale e a guardare di sotto.
Una signora che abitava sopra l’appartamento del cucciolo diede il cellulare dei due ragazzi che dovevano averlo adottato, ammettendo che i padroni, di poco più di vent’anni, erano partiti da 3 giorni per le vacanze, senza – evidentemente – chiedere a nessuno di badare al
gatto. La Thelma in divisa chiamò subito.
Il ragazzo che le rispose disse che erano in ferie e sarebbero tornati dopo una settimana ma che non c’era da preoccuparsi per il loro Matisse: avevano lasciato crocchette e acqua in abbondanza. Fu allora che capii che le vigilesse non sono tutte stron** ma alcune meritavano
la mia stima:
“Ma crede di prendermi in giro? – sbottò Thelma – un gatto così piccolo non può essere lasciato solo per tutto questo tempo, quindi o troviamo una soluzione o lei solleva le chiappe e torna subito qui se non vuol rischiare una bella sanzione per disturbo della quiete pubblica.
Non so se si rende conto della gravità della situazione ma ci sono gli inquilini di due palazzi, il suo e quello di fronte, che sono affacciati perché il micio strilla da due giorni!”.
Il giovane non doveva essere un fulmine di guerra ma colse perfettamente il suggerimento, abbassando la cresta, scusandosi, ma sostenendo che erano giù a Barletta e non potevano rientrare subito.
“Allora facciamo così – suggerì la vigilessa – ci dia il permesso di salire con una scala a prendere il gatto e ringrazi il Cielo che qui c’è una ragazza che è disposta a tenerlo finché non tornate!”.
La “ragazza” ero io (e qui la mia stima per quelle due in divisa salì ulteriormente, dato che non sono proprio giovincella).
Con il sangue freddo di una Indiana Jones in gonnella, mi ero anche offerta di salire la scala da pompiere che ci eravamo nel frattempo procurate per recuperare il pugno di pelo.
Senza timore (e sentendomi una specie di Rocky quando si rialza per sconfiggere il Russo) salii fino al davanzale del bagno, Matisse mi annusò la mano e lo agguantai facilmente alla collottola. Sentendosi sospeso nel vuoto il micio cominciò a dimenarsi ma aveva la forza di un uccellino per cui scesi la scala senza rischiare nulla. Arrivata giù me lo portai al petto e lui si mise subito a ronfare. E come in un film americano a lieto fine, ricevetti gli applausi del vicinato che si era goduto il tutto dalle finestre sovrastanti.
Il piccolo si dimostrò subito affettuoso e… affamato: divorò la scatoletta di tonno al naturale lasciando il piattino come appena lavato e poi mi si addormentò in braccio. Furono giorni bellissimi: giocammo molto e dormimmo insieme sul divano perché, appena provavo a
lasciarlo solo, evidentemente traumatizzato dal non aver più visto di punto in bianco i suoi padroni, si metteva a piangere.
Quando i due tipi mi telefonarono, gli chiesi se avevano notato che Matisse continuava a grattarsi le orecchie e aveva la pancia molto gonfia, per cui era necessario portarlo dal veterinario. “Il gatto sta benissimo – sbuffò lui, evidentemente se ha prurito è perché l’ha
punto una zanzara!”.
“Evidentemente questo sarà il veterinario a deciderlo, perché se non ce lo portate io non ve lo restituisco! E avverto pure Thelma & Luise!”.

Finì che presi appuntamento dallo specialista per andarci con la padrona (lui non si fece vivo). Matisse aveva gli acari nelle orecchie e i vermi nell’intestino. Pagai il veterinario (loro sostenevano di non avere i soldi) e poi glielo ridiedi indietro (ne fui costretta, perché, dato che
lo avevano lasciato con acqua e cibo a sufficienza, non c’erano le condizioni per toglierlo a loro). Quando avvenne, le mie vigilesse mi assicurarono che sarebbero passate da quei due per “una bella ramanzina sull’accaduto” e assicurarsi che si prendessero davvero cura del
piccolo.

Ma la storia non finisce qui… 

Passa il tempo, il cucciolo diventa un micione bianco e cipria: lo vedo dal mio terrazzo quando va su quello dei ragazzi. Ma sento anche lei che gli strilla, o che urla contro il compagno “perché il gatto non sta mai fermo, salta sul tavolo, si fa le unghie…” Ma credeva di avere a mano un peluche?

Alla fine lei se ne va di casa e gli smolla Matisse perché era stato un regalo che lui aveva fatto a lei e ora non vuole più né lui né il gatto. 

Hanno ragione le volontarie dell’Associazione Tutela Animali Bologna (www.tutelaanimalibologna.it): mai regalare un animale come “segno d’amore”! Deve essere la persona che poi lo accudirà a volerlo, non può riceverlo come se fosse una scatola di cioccolatini. Perché se poi la storia tra i due finisce, il gatto che fine fa?

Ma torniamo a Matisse che, cresciuto a sgridate da una strega che non usciva mai di casa, sta ora tutto il giorno da solo. Non essendo abituato, torna a soffrire la solitudine e la mattina sveglia nuovamente il vicinato con miagolii languidi. Il tipo, timoroso delle lamentele degli inquilini, decide così di darlo in adozione. La richiesta arriva a me, ma per questioni famigliari posso tenerlo per poco. Tuttavia, appena possibile, mi precipito a prenderlo: meglio toglierlo subito da lì, dove sembra soffrire e basta.

Scopro che in quella casa viveva rinchiuso tutto il giorno in un’unica sala, senza giochi e solo un tavolo 

ricoperto di oggetti vari e impolverati dove saltare. La sala è sempre in penombra perché la porta finestra aperta sul terrazzo restava con la persiana abbassata, appena uno spiraglio per far uscire il micio dove aveva la cassetta. L’ambiente puzzava di stantio, cibo andato a male e urina, tanto che Matisse si rifugiava dietro i bidoni per l’immondizia in terrazzo, il più lontano possibile dalla serranda e all’angolo opposto della lettiera, evidentemente sporca all’inverosimile. Quando entrai, mi prese un conato di vomito che faticai a non far vedere.

Il ragazzo, pallido, con gli occhiali e i capelli unti, mi disse che Matisse non giocava, non voleva essere preso in braccio ed era schivo perché la sua ex lo picchiava e gli lanciava addosso delle cose quando la infastidiva. Non gli dava mai la pappa umida perché altrimenti gli veniva la diarrea e potevo prendermi tutte le sue cose, anche la lettiera (che rifiutai viste le condizioni in cui era). Il resto, cuccia (macchiata e maleodorante) e crocchette (di pessima qualità tanto che il gatto ne mangiava il meno possibile), le accettai per gentilezza ma poi buttai tutto nel rusco.

Matisse entrò subito nel trasportino, seppure fosse piccolo per lui, dato che lo avevano preso quando era cucciolo. Sembrava non vedesse l’ora di andare il più lontano possibile da quella puzza. Gli avevo preparato una stanza apposta per lui, in modo che non fosse traumatizzato dal cambiamento: c’erano le ciotole con acqua e crocchette, una poltrona con uno scialle come cuccia, la lettiera con sabbia pulita, un tiragraffi e qualche gioco che avevo comprato apposta per lui, oltre al Feliway optimum attaccato da un giorno. Uscì quasi subito dal trasportino per rifugiarsi sotto la poltrona. Era l’ombra del micio che avevo salvato l’estate prima: magro magro, il pelo opaco, gli occhi così tristi che a guardarli facevano male. “Bimbo, quante ne devi aver passate!”. Eppure sembrava capace di leggermi nella mente e nel cuore perché la sera stessa che arrivò da me, mentre ero seduta a terra vicino alla poltrona che si era scelto come rifugio, mi venne vicino e dopo una annusata qui e là cominciò a reagire alla piuma che gli facevo passare tra le orecchie: i gatti sani e giovani devono voler giocare, se sono sani! 

Lo tenni una settimana, in cui lo vidi rinascere: a forza di pappa umida (che divorava alla faccia delle crocchette) coccole e giochi, il pelo divenne folto e lucido e lui si rivelò pieno di vita. Non sopportava essere ignorato: se mi mettevo al pc miagolava per chiedermi di giocare oppure saliva sul tavolo per spiattellarsi sulla mia tastiera e giocare con le biro che gli muovevo.

Piansi un fiume di lacrime quando lo portai in via Santa Caterina, , alla sede di Tutela Animali. E finché non è stato adottato andavo a trovarlo quasi tutti i giorni, per giocare con lui e dargli la pappa. Ora, grazie all’aiuto del Gattile so che ha trovato una mamma umana che gli vuole bene. Avrei voluto diventasse il mio bimbo e mi manca come il figlio che non potrò mai avere. Eppure, sapere che finalmente vive come merita, ovvero come un re, è una gioia immensa, quasi quanto tenerlo in braccio e ricordarlo saltare per acchiappare la piumetta.